"Deep-sea mining"
Il Far West degli abissi oceanici
Questa assenza di regole, dinanzi alla quale potrebbero emergere scenari di libera estrazione, ridefinirebbe il nostro rapporto con gli oceani, aprendoli a una nuova corsa all’oro al cui centro ci sarebbero una serie di metalli, considerati strategici ai fini della transizione ecologica. Così all’interno di un’economia in costante e febbrile espansione anche i mari verrebbero toccati dalla Grande Accelerazione, diventando – proprio sulla base del particolare status giuridico del mare internazionale – una vera e propria terra di conquista di stati e multinazionali.
In questo modo la strategicità degli oceani è emersa non sulla base della loro straordinarietà dal punto di vista della biodiversità o della capacità di immagazzinamento dei gas climalteranti, ma in virtù della presenza di noduli polimetallici. Noduli presenti soprattutto in alcune aree dell’Oceano Pacifico, dove vi è una maggiore presenza di stati insulari, e che risultano essere ricchi di manganese, nichel, cobalto, rame e terre rare.
Ancora una volta, il rapporto del nostro sistema economico con l’habitat che ci ospita è scandito dal paradigma estrattivista, per cui per riuscire a riconoscere il valore di qualcosa l’unica strategia è l’estrazione e la messa a valore. Si ripropone l’oggettivazione della natura a cui ci ha abituato la modernità: un’irrazionale attribuzione di un valore economico a un ecosistema – come premessa per la sua messa a profitto – che però, per il ruolo che riveste, non può avere alcun valore misurabile.
A chiudere il cerchio della narrativa sul deep sea mining ci sono le dichiarazioni delle aziende e degli stati che vorrebbero promuovere questa modalità di estrazione e che sostengono come questa formula si possa considerare meno impattante sia sul piano sociale che sul piano ecologico. Il tutto evidentemente solo se applichiamo una prospettiva per cui ciò che è lontano da noi, come specie, pur impattando altri tipi di ambienti – in questo caso quello marino – non ci tange.
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